Quello che segue non sarà il resoconto formale del viaggio a Palermo. Sarà un articolo personale di conclusioni. Risposte a cui sono giunto. A cui penso da molto tempo. Le coincidenze fini a se stesse, ribadisco, non credo esistano. Tanti sono stati i segnali affinché scendessi in quella terra e le risposte, giuste o sbagliate, non sono tardate ad arrivare. Questo post esce con estrema fatica dalla mia testa. Oggi è una settimana che sono ritornato.
Faccio una doverosa promessa. Non fraintendete le parole e i giudizi che seguiranno sulla città di Palermo. Personalmente ho apprezzato e amato quella città. L’ho visitata libero da pregiudizi sulle differenze tra nord e sud che i media impongono. Su cosa è meglio. Ho imparato che tutto il mondo è paese e ovunque si può imparare qualcosa. Palermo l’ho vissuta con gli occhi di un bimbo a cui è stato regalato il nuovo giocattolo. Un giocattolo colmo di sorprese.
In tanti mi hanno chiesto il motivo di questo viaggio. Non racconterò mai a nessuno tutte le reali ragioni. A ognuno ne ho al più svelate una parte. Mi piace essere spontaneo, ma il mio più grande difetto – o pregio qualsivoglia – è che non posso smettere di pensare. E dunque Palermo è stata valutata attentamente. Ho già spiegato che era la città italiana più distante, facilmente raggiungibile da Genova, e che richiedeva di combattere la paura dell’aereo. Era il viaggio in solitaria che dovevo affrontare.
Vi svelo un nuovo motivo però. E scommetto che nessuno di voi ci ha mai pensato. E ora capirete fino a che punto posso farmi seghe mentali. Nella mia testa ho sempre maturato l’idea che Genova e Palermo fossero interscambiabili. Rispettivamente la sesta e quinta città d’Italia, città di mare e porti protetti da alture circostanti. Chiuse nel loro piccolo mondo, cercando di restare al passo con quello che succede al di là di quelle colline. Per me Palermo è la Genova del Sud o, se volete, Genova è la Palermo del Nord. Le due città si affacciano l’una di fronte all’altra. Sì, è vero, non sono esattamente frontali, ma si guardano pur sempre negli occhi. È una sorta di gioco di specchi. Come quando scrissi Andrea allo specchio.
Sono ossessionato dagli specchi come elementi rivelatori. Come quando Alice guarda dietro lo specchio e capisce che non sempre esiste una corrispondenza biunivoca, ma che invece spesso si nascondono nuove verità e asimmetrie perfette. Per vederle bisogna varcare quella soglia, uscire dalla propria situazione e diventarne estranei. Solo in questo modo si è in grado di decifrare il messaggio senza esserne influenzati. Ecco perché insistevo con l’immagine di me seduto su una spiaggia palermitana in posizione zen. Voleva dire guardarmi nel profondo e capire il perché. Guardarmi allo specchio e vedere la mia vita a Genova.
Avevo bisogno di fuggire dalla mia vita. Dalle continue discussioni che affronto. Dalla situazione castrante in cui mi trovo. E giungere alla conclusione più semplice e brutale di tutte. In questo momento non sono felice. Nonostante, se mi si chieda, rispondo sempre che tutto va bene e cerco di ridere. Cerco sempre la buona parola per tutti. In questo momento però non sono felice. Non sono felice di quel che sono e di quel che ho. La noia, per esempio.
Quando sono arrivato a Palermo, sono stato catapultato in una città che vive sulla commistione di contraddizioni. La città passa dal medioevo allo stile arabo, fascista, barocco con un’estrema facilità. Muovendosi per il centro della città, si attraversa una strada moderna e ricca – anche se la ricchezza mi è sembrata più ostentata che reale – a intere zone e quartieri letteralmente abbandonati a loro stessi. Vere e proprio favelas di saracinesche abbassate, rifiuti abbandonati lungo la via e baraccopoli improvvisate. Di tradizioni dure a morire concatenate alla ricerca del moderno. Personalmente sono rimasto basito nello scoprire che all’interno della stazione dei treni c’è una cappella, ma non una vera e propria sala d’attesa. Confido di non averla trovata. E sulla mafia in generale ho incontrato tanta omertà. Mi ha spaventato.
Uno dei più grandi doni che mi è stato fatto sono gli occhi. Ho occhi per osservare e una testa per riflettere. Ho girato in lungo e in largo il centro della città, perdendomi nelle viuzze e nei mercati. Guardando la gente, ascoltandola parlare. Assaporando per quel poco che mi è stato concesso quell’ambiente. Nel vedere tanti uomini ancora con i baffoni e il classico cappello siciliano. Nel sentire un accento diverso dal mio e gruppi che tra di loro parlavano in dialetto. Io ero uno straniero. E questa cosa mi ha fatto riflettere, perché l’unico posto in cui mi sono sentito a casa è New York e lì non sarò un semplice straniero, ma un vero e proprio immigrato in cerca di casa. Come tanti Siciliani nei primi decenni del Novecento. Ho iniziato a comprendere i fenomeni migratori dal Sud al Nord. Solo che io per cinque giorni, lo stavo effettuando nel senso opposto.
In quella mescolanza di tradizioni e stili, di vecchio e nuovo, non posso che rivedermi. In questo momento mi sento da un lato totalmente vecchio, ancora legato a un passato che mi è utile per capire dove mi ha portato e che mi ha totalmente costruito, ma che non deve impedirmi di crescere e fare il passo successivo. Vedo quel che sono, non mi piace, cerco di cambiare. Con lo spettro di ciò che è stato che mi tarpa le ali. Mi sto sforzando di liberarmi da queste catene. E come ho già più volte ribadito, il piercing, il cambio dei vestiti, il taglio di capelli, le canzoni e il resto sono una ricerca di crescere. Di guardare il futuro per una buona volta. Perché non bisogna mai dimenticare il proprio passato. Ma il passato è passato. Forse è per questo che inizialmente l’impatto con Palermo non è stato positivo. L’ho capito dopo. Mi ha messo troppo a nudo, scoprendo verità che non volevo guardare.
Sono arrivato in una città che era un cantiere in ogni angolo mi voltassi. Ma sono io per primo un cantiere. Sono un work in progress oramai da troppo tempo. E non ho più voglia di esserlo. Uno dei miei pregi è che nonostante tutto ho la forza di affrontare – con i miei ritmi – le mie paure. Capire quali sono i miei limiti e cercare di provare a spostarli sempre più in là. Di cadere, ma di rialzarmi. Mi lamento sempre, è vero, eppure sono sempre qua. Giungo alla conclusione di guardare Palermo e dirmi bene, questo è ciò che sono. Che cosa voglio fare? Lo chiudiamo o no questo cantiere? Rimettiamo in mostra le tue bellezze e facciamo vedere quanto vali?
Non sono felice perché ho troppe lacune. Ho affrontato il viaggio in solitaria per mettermi alla prova. In verità, sono stato soltanto due giorni da solo, poi ho avuto la fortuna di incontrare un amico che mi ha accompagnato a sua insaputa in questo viaggio di riscoperta. E che inconsapevolmente, raccontandomi la sua storia, mi ha trasmesso un’importante lezione di vita. Per cui non potrò mai sdebitarmi. Mi ha fatto vedere quel che sono e contestualmente quel che potrei diventare.
In quei due giorni che sono stato da solo non è andato tutto rosa e fiori. La solitudine si è fatta sentire, tanto, soprattutto quando ero a tavola e alla sera. Non c’è nulla da fare. Ho dedotto che non sono timido, non sono molto estroverso, ma al tempo stesso non sono introverso. Ho bisogno della compagnia. Mi piace condividere. Parlare. E io chiedo troppo da me. Gennaio è stato un mese massacrante, ai limiti dell’esaurimento. Il viaggio volto alla riscoperta e tutte le piccole sfide che ho sommato insieme si sono rivelate una tensione troppo grande da sopportare. Eppure ce l’ho fatta. Perché il bello è questo. Nonostante tutto sono sopravvissuto, non solo nel senso letterale. Intendo che sono sopravvissuto mentalmente. Ho capito che sì, vorrei avere qualcuno sempre pronto a parlarmi e ad ascoltarmi, ad abbracciarmi e da abbracciare (vi ricordate L’importanza di un abbraccio?). Perché l’amore o l’amicizia non sono sentimenti di cui posso fare a meno. Mi ci sono voluti 23 anni e 800 km per capirlo. Mi ci sono volute tutte le persone nuove che ho conosciuto in questi quattro mesi per capire di cosa avevo bisogno realmente. E non solo le persone in sé. Ma che tipo di persone ho incontrato. Le loro teste. Le loro passioni. Per capire che cosa dovevo cercare e devo cercare per il mio futuro.
A Palermo ho cercato di chiacchierare con qualcuno. Finché, quando non cercavo nessuno, sono stato avvicinato da un signore anziano che mi ha fatto da Cicerone, offrendomi un passaggio, trasmettendomi fiducia. E dichiarando che i miei occhi e la mia persona avevano qualcosa di diverso da tutti gli altri. Nonostante fossi lì che mi aggiravo con la musica nelle orecchie. Mi ha detto che sembravo perso. Spaventato. Eppure, che in me c’è tanta disponibilità e spontaneità. Vedeva un bravo ragazzo, sognatore e vincente. Diceva che gli trasmettevo fiducia. Può forse uno sconosciuto che non mi ha mai visto giungere a descrivermi dopo cinque secondi? Perché è vero, sono spontaneo e alla fine un buono. Sulla fiducia me l’hanno sempre detto in tanti, tanto più che la gente dopo pochi incontri mi ha raccontato i propri sogni e le proprie paure. Spaventato e perso è altrettanto vero. Perché in questo momento sono in un limbo, nell’incrocio tra due direzioni. Di qua ho la mia strada e la mia felicità, di là ho la paura e un vicolo cieco. Quell’incontro mi ha aperto gli occhi e lo porterò sempre nel cuore.
Ho beccato un tempo assurdo. Il secondo giorno sembrava estate. A pranzo ha diluviato e nel pomeriggio il cielo si è rannuvolato. Il vento si è alzato e alla sera ha grandinato. La notte è stata serena, ma fredda. La pioggia è stato un leitmotiv costante del viaggio. E anche qui colgo l’imperante ironia. Andrea sotto la doccia. La doccia come nuovo battesimo, una sorta di purificazione. E la riscoperta di sé passa lavando via lo sporco e la paura di ciò che è stato. Mi accorgo che il mio grande terrore è che io sogno in grande, in un mondo dove uno su mille ce la fa ed io potrei non essere quell’uno. E più grande è il sogno più è alta l’eventuale caduta e il rischio di farsi male. Ma diamine, non posso fare a meno di sognare. E la vita è una, come giustamente mi è ricordato, e io voglio viverla senza rimpianti.
Sono religioso perché credo in Dio. Ma non sono cristiano. Cerco di prendere il meglio dalle religioni per confluire il pensiero nell’atavica necessità umana di credere nell’esistenza di qualcosa più grande che vigili sopra le nostre teste e ci guidi. A Palermo sono entrato in una chiesa e per la prima volta dopo molti anni mi sono seduto dieci minuti per pregare. Alla mia maniera, una chiacchierata interiore. Non datemi etichette, né assegnatele. Cercate sempre la libertà.
Sull’aereo ho iniziato a metabolizzare tutte queste conclusioni. È assurdo. Mi sono sempre sentito un bimbo, ma non ho mai dormito in posizione fetale. Sull’aereo ho pianto e ho riso, mi sono rannicchiato come un piccolo feto guardando fuori dal finestrino e mi sono addormentato. Affascinato. Perché le nuvole cariche di pioggia stavano sotto l’aereo e ciò che vedevo era un bellissimo cielo rosso in tramonto sopra il quale si levava una striscia azzurro mare e ancora sopra la notte. Un profondo senso di pace. Di libertà. La consapevolezza che devo fare tesoro di quei giorni e iniziare a spiccare il volo. Ce la farò. Ne ho la forza e la capacità.
Sarò per sempre grato a quel viaggio e a tutto ciò che è successo in quei giorni. A quegli incontri. Con la Sicilia ho un conto aperto e mi auguro di tornarci al più presto. Questa volta, però, facciamo con la bella stagione 😉
Andrea
Tag:amicizia, amore, bianco, crescere, io, partenze, religione, s.mentali, Sicilia, storie, viaggi