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Trip

18 Mar

Il post è un po’ particolare. Accomodatevi. Allacciate le cinture. Si parte!

In inglese la parola trip significa viaggio. La nostra escursione inizia nel 1865 nell’Inghilterra vittoriana. Charles Lutwidge Dodgson era un matematico e logico di estremo talento, nonché un grande fotografo e scrittore. Ma la storia si ricorderà difficilmente il suo nome, preferendogli lo pseudonimo Lewis Carroll.

Secondo la leggenda, durante una gita in barca con tre bambine, tra cui Alice Pleasance Liddell, racconta una storia molto fantasiosa e piuttosto irriverente di cui la stessa Alice è protagonista. La bimba cade nella tana del coniglio bianco e arriva così nel Paese delle meraviglie, un posto scriteriato di petulanti fiori, regine irascibili dal Tagliatele la testa! facile, uomini-carte, cappellai matti e molto altro.

Alice nel paese delle meraviglie e il suo seguito Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò divennero tra i libri, per l’infanzia e non, più famosi della storia. Poco importa se su Dodgson sono calate accuse (mai chiarite) di pedofilia, complici un discutibile rapporto con Alice e numerose foto di bambine, talvolta in pose succinte o in nudi.

Nel 1951, dopo svariati infruttuosi tentativi, Walt Disney presenta forse l’adattamento più celebre e discusso dell’opera di Carroll. Il suo Alice è reo di aver apportato sostanziali e opinabili modifiche all’originale, incapaci di tradurre l’arguzia e l’ironia di Carroll. La protagonista si tinge di biondo ed è catapultata in un mondo illogico abitato da pazzi e da colori eccentrici.

Il film ebbe un’involontaria seconda vita e la definitiva consacrazione a opera ultra-pop grazie alla canzone White rabbit (1967), cantata da Grace Slick, entrata da poco nei Jefferson Airplane. La canzone si ispira nel testo alla storia di Alice e nella struttura musicale al Bolero di Ravel.

Divenuta celebre grazie all’esibizione al Festival di Woodstock (1969), White rabbit rapisce l’ascoltatore con un crescendo musicale ipnotico che trova nel suo massimo la totale e improvvisa interruzione. Il testo omaggia l’opera di Carroll, pur con qualche licenza artistica, intravedendo nelle avventure psichedeliche della bimba le antesignane di quelle sotto acidi e stupefacenti, come l’LSD, che si diffondevano rapidi tra gli artisti e i giovani.

“One pill makes you larger and one pill makes you small.
And the ones that mother gives you don’t do anything at all.
Go ask Alice when she’s ten feet tall. […] 
[…] Feed your head!”

A partire da questi anni il termine trip si avvale di un nuovo significato: il viaggio mentale, lo stato di alterazione psico-fisica dovuto all’assunzione di droghe e sostanze allucinogene.

Molti artisti e intellettuali dichiararono di far uso di sostanze illecite, inserendo continui riferimenti nella cultura popolare. Se vi sorprende il testo di White rabbit, pensate alla ben più nota Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles, le cui iniziali non sono casuali.

Anche l’Italia vanta un caso interessante. Sotto le note di un appassionante e sofferto tango, Giovanni Lindo Ferretti descrive un amore totalizzante che si rivela prima distruttivo, ma tuttavia indispensabile e consolatorio, all’interno della sua Amandoti.

“Amarti m’affatica, mi svuota dentro. Qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto.
Amarti m’affatica, mi dà malinconia. Che vuoi farci è la vita. È la vita, la mia.
Amami ancora, fallo dolcemente. Un anno, un mese, un’ora, perdutamente.
Amami ancora, fallo dolcemente. Solo per un’ora, che sia per sempre.
Amarti mi consola, le notti bianche. Qualcosa che riempie vecchie storie fumanti.
Amarti mi consola, mi dà allegria. Che vuoi farci è la vita. È la vita, la mia.”

Leggendo tra le righe, si notano le parole di un (oggi ex) eroinomane che racconta il contraddittorio rapporto con la sua dipendenza, causa di sbalzi d’umore e tossica per il fisico e la mente.

Nel 2004, Gianna Nannini consacra la canzone al successo. Mantenendo inalterata la struttura del tango accompagnato da archi e da un tono graffiante e sporco, poi abbandonato e liberatorio sul finire, la sua cover dà l’idea di una profonda preghiera al partner.

Possono due versioni così identiche avere interpretazioni così lontane? Può l’amore della Nannini essere più sano della droga di Ferretti? Ciò a cui alludo è che entrambe non descrivono dei rapporti salutari. C’è sì la speranza di un rapporto che pur difficile è possibile, ma questo rivela la sua natura alienante e sfibrante.

Quando si parla di droghe, intese come sostanze illecite, si associa il termine di dipendenza. La dipendenza è una situazione di insoddisfazione personale che provoca un persistente bisogno verso qualcosa. Il termine di dipendenza non è però automaticamente associato a quello di droga in senso stretto. Esistono dipendenze da fumo, alcol, cibo, farmaci, ma anche da sesso e persino dipendenze affettive.

In questo caso il partner intravede nelle attenzioni verso l’altro la sua ragion d’essere e la possibilità di colmare un vuoto personale. L’amore perde la sua dimensione salutare e lascia spazio alla gelosia, alla paura dell’abbandono e alla disattenzione dell’altro, spesso una persona sfuggente, creando una dimensione di tossicodipendenza. Qui per approfondimenti.

La definizione di droga è dunque da intendere nella sua accezione più ampia come tutto ciò capace di creare assuefazione e limitare la nostra autonomia, sia esso un alimento, un medicinale o ancora una persona. Spesso non è l’oggetto in sé a essere sbagliato, ma l’uso che ne facciamo.

Dopo 150 anni di peregrinazioni il nostro viaggio giunge al termine. In pieno post-modernismo, è interessante osservare come tutto appare strettamente collegato e niente mai realmente nuovo. Si tratta solo di riletture diverse che ne espandono i significati originali. Perché il passato racconta anche la storia del nostro futuro. E niente è per forza ciò che appare. C’è sempre un segreto pronto a essere svelato. Come ciò che si nasconde dietro un’illusione.

Il mio trip termina qua. Spero che il prezzo del biglietto ne sia valso la pena.

©®aMe
Andrea Magliano

Nonostante l’oggetto del post, il sottoscritto non sostiene l’uso di sostanze illecite.

Pushing Daisies

26 Nov

C’era una volta la città di Coeur D’Coeurs dove viveva il giovane Ned.

Il bambino aveva un dono: era capace di riportare in vita i morti. Lo aveva scoperto un soleggiato pomeriggio resuscitando il fido cane Digby dopo che era stato investito. Ciò che non vide è che mentre il cane tornava a scodinzolare un povero scoiattolo smetteva di respirare.

Ned era innamorato della sua vicina, Chuck. Durante una delle sue contemplazioni, la madre di Ned cadde a terra inerme. Ned la toccò e la madre, aperti gli occhi, disse Ops, devo essere scivolata! e come se nulla fosse si diresse verso il forno ché il timer era suonato. In quel momento un infarto stroncò il padre di Chuck.

La notte ben presto arrivò e Ned stava per ricevere il tanto desiderato bacio della buonanotte dalla madre. Ma lei al sol sfiorare il figlio chiuse gli occhi, questa volta per sempre.

Furono celebrati i funerali dei genitori e al cimitero Ned e Chuck si guardarono e si scambiarono il loro primo, ma anche ultimo bacio, prima di prendere strade diverse.

Il dono di Ned aveva tre regole: un tocco la vita; due tocchi la morte eterna; poteva riportare in vita qualcuno per un minuto senza conseguenze, ma dopo 60 secondi sarebbe morto qualcun altro se il resuscitato non fosse tornato alla morte.

19 anni dopo Ned è divenuto il fabbricatorte del Pie Hole dove cucina esclusivamente con frutta marcia. Quadra i conti aiutando l’investigatore privato Emerson Cod, amante dei libri pop-up e del cucito, a risolvere omicidi chiedendo al cadavere il nome del proprio assassino. Ned ha una cameriera, l’ex fantina professionista Olive, perdutamente innamorata di lui.

Un giorno scoprono il caso della morte di una certa Charlotte. Il fabbricatorte riconosce in quel volto la giovane Chuck e nonostante le controindicazioni del suo dono le regala una seconda vita.

Pushing daisies (letteralmente Spingendo le margherite) è una serie televisiva dell’americana ABC. Presenta soltanto 22 episodi in due stagioni. Nonostante le ottime recensioni, il serial si è trovato schiacciato dallo sciopero degli sceneggiatori americani e snobbato dal grande pubblico, incontrando così la fine prematura..

Il telefilm è una commistione di generi distanti tra loro, che ne aumenta l’effetto straniante. Da una parte è un crime. Ogni puntata introduce un nuovo omicidio da risolvere, ma ne rifiuta l’elemento gore e la violenza. Dall’altra è un fantasy, antesignano di alta classe e originalità dei moderni telefilm sulle fiabe. La storia si sviluppa sotto la guida di un narratore onnisciente che ci conduce tra personaggi estremamente eccentrici e dialoghi surreali, ma mai demenziali e sempre adulti. Definisce un mondo che è un’esplosione di colori dal tempo incerto, un po’ moderno e un po’ vintage.

La serie presenta caratteri amorali. Il fabbricatorte ha un dono potente, fin sacro, nelle proprie mani, ma lo sfrutta per quadrare i conti in rosso del locale. Decidendo di riportare in vita Chuck, è consapevole che qualcun altro dovrà morire al suo posto.

Il tema centrale della storia è però l’amore platonico. Scoprendo a sue spese le controindicazioni del dono, Ned può accarezzare il cane Digby solo con un bastone-protesi. Riportando in vita Chuck sa di non poter più sfiorarla pena la morte definitiva di lei. Ma sa anche che ne è ancora perdutamente innamorato e quella seconda chance è il suo dono più grande. E i due si accorgono di corrispondersi.

Intimorito da questo potere e da un background privato di solitario dolore, Ned non conosce le sensazioni di abbracci e baci e rifiuta ogni forma di contatto. Per paura di trasformarsi nel carnefice della bella Charlotte incrocia spesso le braccia dietro la schiena. Per Ned la situazione si complica quando di tanto in tanto Olive cerca di stuzzicarlo per provocargli una reazione (fisiologica) o quando si accorge di essere escluso dai gesti più banali, come un battere cinque o afferrare Chuck quando sta cadendo.

La difficoltà di un amore irrimediabilmente impossibile apre però le porte all’originalità cosicché i due escogitano nuovi modi per far vivere questo sentimento. Appaiono dolci i due amanti che inconsapevoli rivolgono entrambi la mano al muro che li separa come se si stringessero l’uno all’altra. Geniale il fabbricatorte che installa un vetro con un buco con guanto tra i posti anteriori della macchina. Dolci quando incrociano ognuno le proprie mani e affidano ai loro sguardi quel bacio tanto sospirato. Splendidi e magici quando usano la pellicola:

Il dio Amore così spiazzato passa al contrattacco. Il potere di Ned deve restare segreto e Chuck non può tornare alla solita vita dalle zie, ex sirene del nuoto sincronizzato, oggi depresse e nevrotiche e una con un occhio solo, perso mentre puliva la lettiera dei gatti. Né Chuck è a conoscenza che la vita del padre è stata barattata per prolungare di poche ore quella della madre di lui, seppur in un innocente incidente di formazione.

Ned e Chuck sono lì, in apparenza poco distanti, ma concretamente irraggiungibili. Può oggi un amore esistere al di là della sua manifestazione fisica? Non solo sesso, che comunque ha il suo bel peso nella vita di coppia, quanto anche semplici gesti come due mani pronte a unirsi in un tutt’uno. A che cosa si è capaci di rinunciare per vivere l’Amore puro?

E vissero per sempre felici e contenti… o forse no. A voi scoprirlo.

©®aMe
Andrea Magliano

Pushing daisies

Note di servizio. Da domani inizierà una piccola collaborazione con il blog Cinema Sperimentale a cura di Marco Milone. Lo ringrazio vivamente per la possibilità. Per chiunque interessato all’arte audiovisiva, cortometraggi, film, ma soprattutto a scoprire nuove voci e sperimentazioni, beh c’è solo una cosa da fare: tuffatevi in questo mondo pieno di sorprese.
Altro ringraziamento, questa volta a Samanta, che dolce, gentile, brava e mamma indaffarata, mi ha assegnato il Super Sweet Blogging Award. Sono un golosone, ma farò uno strappo alla regola e condividerò dolci e torte con tutti per festeggiare!

Fama

25 Ott

Calano le luci e scende il silenzio.
Si apre il sipario.
Ché la Dea rivendica il suo compenso.
Schiude le sue ali nere,
assaporando il mero frutto
e il rosso liquido
dell’anima esanime.

©®aMe
Andrea Magliano

Poco più di 10 anni fa (il 12 settembre 2003) il mondo si preparava a salutare Johnny Cash, mito della musica country folk americana. Non conoscendo nulla della sua vita privata e artistica, non ne farò un ritratto commemorativo e probabilmente sbagliato, ma mi affiderò al suo ultimo videoclip, la bellissima e struggente Hurt.

Si tratta di una cover dell’omonima canzone interpretata da Trent Reznor, leader dei Nine Inch Nails, nel 1994. Cash ne registra una cover molto personale nel 2002 per distribuirla nel marzo dell’anno successivo. Apporta un unico cambiamento al testo: indossa una corona di spine, anziché di merda come affermava l’autore originale.

La versione di Cash pare una struggente preghiera. Non si può non accorgersi della notevole vicinanza tra la data di pubblicazione della canzone e quella della morte dell’interprete. Come se Cash sapesse di avvicinarsi alla sua fine e stesse narrando le sue memorie, dettando il suo ultimo testamento.

È una sorta di visione profetica, la stessa che avrà il regista Robert Altman pochi mesi prima di morire con il suo magnifico Radio America (2006). Altman racconta l’ipotetico ultimo spettacolo del più longevo e ascoltato live show radiofonico del mondo anglofono, A Prairie Home Companion, seguendo un cast eccezionale sul palco e nel dietro le quinte. Tra di loro, una misteriosa donna in impermeabile bianco aggirarsi furtiva, vista e non vista, quasi surreale.

Cash si mostra in tutta la sua fragilità accompagnato dal piano e dalla chitarra. Perennemente seduto, immerso in un quadro di natura morta, appare in contrasto con il suo ricordo in piedi e/o in movimento, come a suggerirci la fine del suo percorso.

Dopo quasi due minuti dall’inizio, rivolge finalmente, seppur a intermittenza, il suo sguardo al pubblico accompagnandolo da queste parole:

I wear this crown of thorns / Upon my liar’s chair / Full of broken thoughts / I cannot repair
Beneath the stains of time / The feelings disappear  / You are someone else / I am still right here.

Il re dalla corona di spine non solo è immerso nella natura morta. Vive il suo essere mito nel contrasto di un’opulenza che sa farsi vuota. La casa è sfarzosa. Davanti a lui c’è una tavola imbandita con aragoste e caviale. Alle pareti il ricordo di parenti lontani mentre sulle scale la moglie che intuisce e vive empaticamente il dolore del marito. Ma i vecchi amici sono lontani e i vecchi saloon presenze vuote e spente. La vecchia casa è trasformata in un museo, ma chiusa al pubblico. Le pareti un tempo ricche di premi oggi sono vuote e spoglie.

E allora l’uomo, non più mito o re, mantiene lo sguardo fisso su di te nel più forte gesto. Mostra la rabbia, la frustrazione, la stanchezza, la tristezza, l’ineluttabilità, in due occhi difficili da sostenere. Affetto dal Parkinson, getta il vino su quella tavola imbandita ripudia quel mondo illusorio, il suo impero di sporcizia, intonando:

What have I become? / My sweetest friend / Everyone I know goes away / In the end
And you could have it all / My empire of dirt /
I will let you down / I will make you hurt

Invocando in preghiera la possibilità di una seconda possibilità, Johnny sfuma a nero il suo ricordo, chiude il sipario con quel pianoforte.

I would keep myself / I would find a way

©®aMe
Andrea Magliano

Un sentito e speciale ringraziamento a tutti che, in occasione della pubblicazione di Essenziale lo scorso 17 ottobre, hanno permesso a questo sito di raggiungere le 10.000 visite, facendomi un regalo di compleanno in anticipo. Grazie!
Countdown: -17.

Briciola

5 Ott

Ciao Briciola,
esattamente un anno fa te ne sei andato,
portando nel tuo viaggio un pezzo di me,
come tuo compagno.

Non ci sei più con il corpo,
ormai distante e tornato alla madre terra.
Ma non c’è giorno in cui non torni a farmi visita,
nei miei pensieri e nei miei ricordi,
con il tuo spirito. E con te.

Mi volto cercandoti ancora steso sul mio letto,
mi siedo sperando che mi salti in braccio per appisolarti,
apro i libri convinto che ti posizionerai sopra in attesa di una carezza
ricambiata dalle tue fusa colme di affetto.
L’uno ombra dell’altro.

Siamo cresciuti insieme. 17 anni e mezzo.

Il mio primo vero amico,
quello che mi tirava le testate quando qualcosa non andava
per ricordarmi che tu eri lì con me e che solo non ero.

Ed io il tuo vero amico,
quello che ti instradava per la casa
quando ormai la vecchiaia ti aveva costretto alla cecità.

Noi che non potevano separarci,
perché nonostante la mia allergia,
sempre in braccio ti avevo.

E quando tu piccolo vecchietto deperito,
ti accovacciavi come un neonato
nel mio abbraccio.

Sei stato tenace e hai cercato di resistere,
fin tanto che le forze non ti hanno abbandonato
e mi hai detto
‘È giunto il mio momento’.

Vorrei farti vedere tutto ciò che è successo in questo anno,
condividere con te il mio viaggio e i miei successi.
I fallimenti e le mie tristezze.
La mia crescita e i miei angoli smussati.

E nonostante le lacrime che ora mi bagnano il volto,
sei sempre con me,
proprio qui,
nel mio petto
e sempre ci sarai.

Eppure,
come non mai,
vorrei rivederti.
Per un altro abbraccio.

Buon viaggio, Briciola.

©®aMe
Andrea Magliano

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Questa dedica è una piccola incursione nella mia vita privata, oggi nell’anniversario della morte del mio gatto. In questa settimana iniziata bene e terminata con losche e nere nuvole all’orizzonte che sopra la mia testa hanno deciso di fermarsi per una sosta.

Intanto dietro quelle nuvole arriva uno spiraglio di sole, un caldo raggio a rischiarare e a riscaldare la giornata. Due ringraziamenti questa volta ad altrettanti blogger. Una certa E. e un certo Emanuele, che entrambi mi hanno nominato per il Versatile Blogger Award. Non proseguo le catene, ma sappiate che la nomina è condivisa con tutti voi. E intanto vi rimando con un grande sorriso a loro due, sensibili e talentuosi scrittori.

Still

27 Set

Breve premessa iniziale. Il seguente articolo non si riferisce a nessuna situazione nello specifico, ma nasce dal videoclip.

Per l’appuntamento settimanale del blog, vi presento Still, canzone del gruppo indie-pop britannico Daughter rilasciata per il debutto del loro primo album If you leave.

Sono passati quasi tre mesi da quando ho iniziato a scrivere questo articolo e, nonostante la lunga e faticosa attesa, non ho individuato un titolo opportuno. I nuovi post sono stati presentati con una sola parola e volevo mantenere questo stile. In origine avevo scelto Indifferenza, ma non mi piaceva perché volevo parlare anche delle distanze. Allora Distanze, ma pure questo termine era sempre troppo limitativo. Così, alla fine, ho optato per quel Still che incalza e si inietta sotto pelle, un ancora sofferto e sofferente difficile da sciogliere. Un ancora che per una volta non trasmette la felice voglia di proseguire o di un bis.

Questo post nasce idealmente come duale di Mi amerai ancora?, scritto per l’uscita di Young and beautiful di Lana Del Rey. Se lì c’era una sentita preghiera verso l’innamorato, qui siamo ipoteticamente oltre, al capolinea del rapporto. Riciclo però due affermazioni. Da una parte la totale bellezza della voce femminile, veicolo magnifico di vibrazioni e sfaccettature, capace di scuotere e coinvolgere.

Dall’altra l’amore verso il videoclip che bramo fosse mio. Perché preme i giusti tasti di questo pianoforte ormai non più accordato e impolverato. Parte da una situazione che dovrebbe essere bellissima, un po’ come quell’ancora, che per contraddizione trasforma invece in una prigione castrante. La casa e nella fattispecie la camera, ma ancor più in dettaglio il letto, sono i luoghi in cui dovremmo essere più sereni e in pace. Fortezze in cui poter levare le maschere e ripari che agogniamo anche solo per un semplice riposo. E poi la felicità di dividere tale ricchezza con qualcuno. Forse.

I’ll wrap up my bones / And leave them / Out of this home / Out on the road

La regia del videoclip è molto delicata. Non è un soggetto invadente, ma spia silenziosa i suoi protagonisti come se li guardasse dal buco di una serratura. Li osserva alle spalle, visualizzando i dettagli delle azioni. Li vede riflettersi negli specchi che tappezzano la stanza. Vede ombre sfuggenti e imprendibili. Come in Necrologio, la ragazza si spoglia dei vestiti e del trucco, resta corpo nudo e solo, mentre la sua immagine si scompone spezzando le pulsioni dell’anima in vetri rotti.

Two feet standing on a principle / Two hands longing for each others warmth / Cold smoke seeping out of colder throats

Still with feet touching / Still with eyes meeting / Still our hands match / Still with hearts beating

Lui è lì a pochi centimetri di distanza. Sono vicini, si possono sfiorare e toccare, sentire il respiro e il cuore dell’altro battere. Condividono il letto come due perfetti innamorati. Ed eppure adesso sono le persone più distanti. Sconosciuti, nulla di più. Lei cerca un abbraccio che trova nelle proprie mani seduta sul ciglio del letto. Sono creature indifese e intrappolate da una catena che li lega in una morsa senza fine di una relazione ormai finita.

E allora che cosa è la distanza? Non può essere esclusivamente ricondotta su un piano spaziale. Forse è qualcosa di mentale. La distanza fisica in un rapporto può trasformarsi in un ostacolo laddove si vuole viverla come un ostacolo. Due amanti, due ex amanti, condividono il letto e vivono come una coppia. Ma prevale la freddezza di un freddo respiro. Si cercano ed eppure non si trovano in uno spazio ristretto. Non riescono a incrociarsi. E nonostante tutto sono pur sempre lì, incapaci di chiudere o di capire.

L’ancora si trasforma in una lenta e agonizzante monotonia del corpo e dell’anima. E la distanza in senso diventa puramente un’illusione.

Siamo mutevoli. Tutto cambia in qualsiasi momento, compresi i sentimenti, senza che possiamo prevederne l’evolversi. Chissà cosa è successo alla coppia, ma non vedo amore, né c’è odio. C’è una distanza che si trasforma in sofferente indifferenza. E cosa c’è di peggio? L’odio o la rabbia sono pur sempre sentimenti. Opposti, negativi all’occorrenza, ma lasciano traccia di un volere l’altro. Non nascondono. Si odia qualcuno a cui si continua a pensare, la rabbia si prova verso qualcuno a cui tenevamo e/o che ci ha fatto male.

L’indifferenza è lo stato d’animo che sottende la chiusura, che impone il disinteresse verso il prossimo. È la negazione del sentimento, bello o brutto, attuale o definitivamente per sempre. I due soffrono, sì, ma soffrono per che cosa? Si cercano e non si trovano mai, lei è titubante nel mettere piede in casa, lui nell’aspettarla sveglio. Anime che si specchiavano e che ora sono fredde. E arriva la fine.

Nello spegnere la luce. Nello svanire della televisione. Nel silenzio assordante di una notte. Di due spiriti che sono lì, erranti in direzioni non intersecabili. E quando l’ultima fiamma si spegne…

… Darkness falling, leaves nowhere to go.

©®aMe
Andrea Magliano

Per relazione intendo un qualunque rapporto familiare, di amicizia o come in questo caso di amore, a cui applicare i concetti di distanza e indifferenza.

Tre mesi per scrivere questo articolo e ancora insoddisfatto del risultato.