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Jesus Christ Superstar

9 Giu

Certi argomenti sono come una corda sospesa nel vuoto. E il rischio di cadere è alto. Soprattutto se la storia si fonde con il mito e la leggenda e alcuni di quegli episodi si ripercuotono ancora oggi a distanza di secoli. E la minaccia del fanatismo, non esclusivamente religioso, è dietro l’angolo in qualsiasi momento.

Del resto la storia non sempre risulta oggettiva o assoluta. Dipende infatti dalle fonti in nostro possesso e si aggiorna con costanza. A scriverla sono gli uomini con i loro umori e le loro idee e nel mare di voci emergono anche pensieri contrastanti e non per forza condivisi.

Capita così che una delle figure cardine della cultura occidentale, quella di Gesù Cristo, offra materiale pressapoco infinito. È davvero esistito o no? E se sì chi era costui e cosa è davvero successo? Domande lecite visto che il nostro mondo deriva da quegli anni.

La principale fonte storica è rappresentata dai Vangeli e dalle sacre Scritture, opere scritte da altre persone e che in taluni passaggi presentano delle discordanze. I testi mostrano poi diverse componenti sovrannaturali (immacolata concezione, miracoli…) che, se per alcuni sono da prendere alla lettera, per altri (compresi alcuni teologi) forniscono solo un’indicazione simbolica dei fatti accaduti.

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Negli anni ’70 Tim Rice e Andrew Lloyd Webber realizzarono testi e musiche per l’album rock Jesus Christ Superstar, diventato poi un musical teatrale le cui repliche proseguono tutt’oggi nel mondo. Nel 1973 Norman Jewinson ne firma l’adattamento per il grande schermo, dando luce a un cult senza tempo e a uno dei più bei film spirituali del cinema.

Interamente girato nelle terre di Israele, qui un gruppo di giovani hippie mette in scena gli ultimi giorni della vita di Cristo fino alla morte per crocifissione. Alla figura di Gesù, interpretato da un quasi esordiente Ted Neeley, si contrappone un eccelso e superbo Giuda Iscariota, con il volto di Carl Anderson.

In questa rivisitazione l’elemento divino è assente, ricordando invece la dimensione umana e terrena degli eventi e dei suoi protagonisti, tutti in qualche modo persi. Si pone l’accento sulla costante ricerca di spiritualità, mettendo in guardia dal cieco fanatismo, e si mostrano infine le ripercussioni politiche di certi messaggi.

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Per la prima volta gli episodi sono narrati attraverso gli occhi del traditore, un Giuda estremamente razionale e logico, capace di comprendere le reali implicazioni delle parole di Cristo, ormai totalmente fuori controllo, ingigantite, fraintese e poco spirituali. Il suo grido mette in guardia dal crescente invasamento che potrebbe sfociare in una rivolta fatale per il popolo sottomesso. Non risparmia neanche Gesù che, per quanto continui ad ammirare, ritiene sempre più protagonista ammaliato dalla sua nomea e lontano dagli obiettivi iniziali, e si chiede della veridicità del suo parlare in nome di Dio.

Giuda lamenta l’uso improprio di risorse che potrebbero essere usate per salvare i poveri, ormai assenti nel programma, su cui Cristo risponde che questi esisteranno sempre. Disprezza la presenza di Maria Maddalena a fianco di una persona di così alta levatura che pare invece compiaciuta delle cure e attenzioni ricevute. In una dolce I don’t know how to love him, la prostituta canta il profondo smarrimento causato da un amore di difficile comprensione, notando però che alla fine Gesù è solo un uomo come gli altri.

A un dinamico Giuda si contrappone un Cristo passivo nel subire le conseguenze degli eventi sfuggiti di mano e che, per quanto spirituale, non ha quasi nulla di divino. Capisce che il messaggio di gloria e di potere sono stati fraintesi quando una folla gli dedica il proprio cieco asservimento e l’apostolo Simone lo incita ad aggiungere un pizzico di odio contro Roma (Simon Zealotes/Poor Jerusalem).

Assiste al degrado del Tempio di Gerusalemme colmo ormai di mercanti e prostitute (The temple) e, sopraffatto da un’orda di lebbrosi che lo inghiotte speranzosa in un tocco miracoloso, implora di essere lasciato stare (The lepers). L’eccentrico re Erode, sospeso in un party dai dubbi gusti sessuali, insiste per vedere i miracoli per cui Gesù è divenuto una star, ma senza risultati lo accusa di essere uno qualunque (King Herod’s song).

Il più toccante passaggio giunge al termine dell’ultima cena. Un Cristo sempre più triste, solo e prossimo alla morte, si allontana nell’orto degli ulivi. Ancora una volta un uomo, ancorché il mito, si dimostra smarrito e incapace di accettare il proprio destino, sfogando i dubbi in una sofferta preghiera-scontro contro il Signore.

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Dietro l’anima spirituale si nasconde quella politica, sempre più umana e terrena. Le paure di Giuda sono fondate quando la gente intorno a Cristo aumenta e lo proclama, oltre che il figlio di Dio, il re dei Giudei alla guida di un popolo oppresso che rivendica una terra.

I primi ad esserne spaventati, intimoriti di perdere i propri privilegi e della reazione romana, sono i sommi sacerdoti ebraici Anna e Caifa che spingono il Sinedrio (dedito a legiferare e alla giustizia) a votare la morte di Cristo. Premendo sulle paure di Giuda, lo inducono con l’inganno a tradire Gesù in cambio di denaro con cui poter aiutare i poveri. Cristo è arrestato per essersi equiparato a un Dio e portato davanti a Pilato che, in nome di Roma, avrà l’ultima parola. Dinanzi al silenzio del condannato, alla folla feroce fomentata dal Sinedrio che lo vuole crocifisso e dopo la fustigazione pubblica, un impotente Pilato, preoccupato di insurrezioni, non può che lavarsi le mani e mandare a morte l’uomo (The trial before Pilate/39 lashes).

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Nonostante gli apprezzamenti della Chiesa di Roma, il film non mancò di generare proteste e accuse diffuse da parte di alcuni gruppi ebrei e cristiani.

I primi denunciarono il film di antisemitismo, avendo dipinto il popolo ebreo come responsabile della morte di Cristo. Ci si dimentica però che gli eventi qui narrati sono contenuti nel Nuovo Testamento e non sono un’invenzione dello sceneggiatore. Questi episodi sono stati una delle ragioni con cui il Cristianesimo ha sempre giustificato nei secoli la persecuzione contro gli Ebrei, fino alle scuse ufficiali di Papa Giovanni Paolo II.

L’altra principale accusa è di blasfemia. Si critica sia l’aver trasformato Cristo in una qualsiasi rock-star sia l’averlo dipinto uomo e non un’entità superiore. Il film costruisce poi un parallelismo tra Giuda e Gesù, esulando il semplice ritratto di traditore e tradito. I due si compensano come metà di una stessa medaglia, entrambe vittime di un destino più grande già scritto e condotte a morte per tradimento. Giuda non consegna Gesù per fini personali, ma con la speranza di salvarlo, evitare le probabili insurrezioni e con i soldi della ricompensa aiutare i bisognosi. Le promesse del Sinedrio non sono però mantenute e il senso di colpa lo spinge al suicidio.

Un altro cambiamento chiave dell’opera è che a resuscitare non è Cristo, ma lo spirito di Giuda nella famosa Superstar. Scendendo dal cielo con una croce, l’Iscariota rivendica profondi dubbi su quanto è successo. Alla fine chi è realmente Gesù, che cosa ha sacrificato e per cosa? Perché mai, se era portavoce di un messaggio di salvezza, non è apparso con un piano e ai giorni nostri per sfruttare i moderni mass media? E cosa dire allora delle altre religioni?

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Girato con tocco anti-militarista, il film arriva in un periodo di grandi cambiamenti e tensioni, dopo gli assassinii dei fratelli Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X e durante la Guerra del Vietnam.

Può esistere religione senza politica? Dietro i diversi credi si nascondono istituzioni e in nome della religione, a prescindere da quale, sono morte più persone di quante ne sono state salvate. In nome della religione sono scoppiate guerre, attentati e persecuzioni che solo in quella cristiana hanno coinvolto (tra gli altri) pagani, ebrei, omosessuali, scienziati, gente mancina, con i capelli rossi o le lentiggini. In nome della religione non vi è equiparazione dei diritti.

Si può allora essere spirituali senza essere religiosi?

Rileggendo i personaggi liberi di qualsiasi componente superiore, si ricorda che prima di tutto sono uomini che come tali sono emotivi, smarriti, tentati, strumentalizzati. Privi di certezze, si muovono e si interrogano in cerca di risposte per fugare i propri dubbi. La spiritualità passa anche dalla capacità di domandare e di saper (e sapersi) mettere in discussione.

Ciò è l’esatto opposto del fanatismo. L’invasamento, non sempre religioso, è oggi ancor più applicabile a qualsiasi contesto, con la folla pronta a elevare idoli o guide che negano il confronto e si fanno portavoce dell’unica (presunta) verità.

Non esiste l’assolutismo, ma ogni cosa è pronta per essere riscritta.

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Il film si chiude sulla croce e con un pastore che, nel rossore del tramonto, conduce il suo gregge. Il messaggio di Cristo non è andato perso.

©®aMe
Andrea Magliano

Trip

18 Mar

Il post è un po’ particolare. Accomodatevi. Allacciate le cinture. Si parte!

In inglese la parola trip significa viaggio. La nostra escursione inizia nel 1865 nell’Inghilterra vittoriana. Charles Lutwidge Dodgson era un matematico e logico di estremo talento, nonché un grande fotografo e scrittore. Ma la storia si ricorderà difficilmente il suo nome, preferendogli lo pseudonimo Lewis Carroll.

Secondo la leggenda, durante una gita in barca con tre bambine, tra cui Alice Pleasance Liddell, racconta una storia molto fantasiosa e piuttosto irriverente di cui la stessa Alice è protagonista. La bimba cade nella tana del coniglio bianco e arriva così nel Paese delle meraviglie, un posto scriteriato di petulanti fiori, regine irascibili dal Tagliatele la testa! facile, uomini-carte, cappellai matti e molto altro.

Alice nel paese delle meraviglie e il suo seguito Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò divennero tra i libri, per l’infanzia e non, più famosi della storia. Poco importa se su Dodgson sono calate accuse (mai chiarite) di pedofilia, complici un discutibile rapporto con Alice e numerose foto di bambine, talvolta in pose succinte o in nudi.

Nel 1951, dopo svariati infruttuosi tentativi, Walt Disney presenta forse l’adattamento più celebre e discusso dell’opera di Carroll. Il suo Alice è reo di aver apportato sostanziali e opinabili modifiche all’originale, incapaci di tradurre l’arguzia e l’ironia di Carroll. La protagonista si tinge di biondo ed è catapultata in un mondo illogico abitato da pazzi e da colori eccentrici.

Il film ebbe un’involontaria seconda vita e la definitiva consacrazione a opera ultra-pop grazie alla canzone White rabbit (1967), cantata da Grace Slick, entrata da poco nei Jefferson Airplane. La canzone si ispira nel testo alla storia di Alice e nella struttura musicale al Bolero di Ravel.

Divenuta celebre grazie all’esibizione al Festival di Woodstock (1969), White rabbit rapisce l’ascoltatore con un crescendo musicale ipnotico che trova nel suo massimo la totale e improvvisa interruzione. Il testo omaggia l’opera di Carroll, pur con qualche licenza artistica, intravedendo nelle avventure psichedeliche della bimba le antesignane di quelle sotto acidi e stupefacenti, come l’LSD, che si diffondevano rapidi tra gli artisti e i giovani.

“One pill makes you larger and one pill makes you small.
And the ones that mother gives you don’t do anything at all.
Go ask Alice when she’s ten feet tall. […] 
[…] Feed your head!”

A partire da questi anni il termine trip si avvale di un nuovo significato: il viaggio mentale, lo stato di alterazione psico-fisica dovuto all’assunzione di droghe e sostanze allucinogene.

Molti artisti e intellettuali dichiararono di far uso di sostanze illecite, inserendo continui riferimenti nella cultura popolare. Se vi sorprende il testo di White rabbit, pensate alla ben più nota Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles, le cui iniziali non sono casuali.

Anche l’Italia vanta un caso interessante. Sotto le note di un appassionante e sofferto tango, Giovanni Lindo Ferretti descrive un amore totalizzante che si rivela prima distruttivo, ma tuttavia indispensabile e consolatorio, all’interno della sua Amandoti.

“Amarti m’affatica, mi svuota dentro. Qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto.
Amarti m’affatica, mi dà malinconia. Che vuoi farci è la vita. È la vita, la mia.
Amami ancora, fallo dolcemente. Un anno, un mese, un’ora, perdutamente.
Amami ancora, fallo dolcemente. Solo per un’ora, che sia per sempre.
Amarti mi consola, le notti bianche. Qualcosa che riempie vecchie storie fumanti.
Amarti mi consola, mi dà allegria. Che vuoi farci è la vita. È la vita, la mia.”

Leggendo tra le righe, si notano le parole di un (oggi ex) eroinomane che racconta il contraddittorio rapporto con la sua dipendenza, causa di sbalzi d’umore e tossica per il fisico e la mente.

Nel 2004, Gianna Nannini consacra la canzone al successo. Mantenendo inalterata la struttura del tango accompagnato da archi e da un tono graffiante e sporco, poi abbandonato e liberatorio sul finire, la sua cover dà l’idea di una profonda preghiera al partner.

Possono due versioni così identiche avere interpretazioni così lontane? Può l’amore della Nannini essere più sano della droga di Ferretti? Ciò a cui alludo è che entrambe non descrivono dei rapporti salutari. C’è sì la speranza di un rapporto che pur difficile è possibile, ma questo rivela la sua natura alienante e sfibrante.

Quando si parla di droghe, intese come sostanze illecite, si associa il termine di dipendenza. La dipendenza è una situazione di insoddisfazione personale che provoca un persistente bisogno verso qualcosa. Il termine di dipendenza non è però automaticamente associato a quello di droga in senso stretto. Esistono dipendenze da fumo, alcol, cibo, farmaci, ma anche da sesso e persino dipendenze affettive.

In questo caso il partner intravede nelle attenzioni verso l’altro la sua ragion d’essere e la possibilità di colmare un vuoto personale. L’amore perde la sua dimensione salutare e lascia spazio alla gelosia, alla paura dell’abbandono e alla disattenzione dell’altro, spesso una persona sfuggente, creando una dimensione di tossicodipendenza. Qui per approfondimenti.

La definizione di droga è dunque da intendere nella sua accezione più ampia come tutto ciò capace di creare assuefazione e limitare la nostra autonomia, sia esso un alimento, un medicinale o ancora una persona. Spesso non è l’oggetto in sé a essere sbagliato, ma l’uso che ne facciamo.

Dopo 150 anni di peregrinazioni il nostro viaggio giunge al termine. In pieno post-modernismo, è interessante osservare come tutto appare strettamente collegato e niente mai realmente nuovo. Si tratta solo di riletture diverse che ne espandono i significati originali. Perché il passato racconta anche la storia del nostro futuro. E niente è per forza ciò che appare. C’è sempre un segreto pronto a essere svelato. Come ciò che si nasconde dietro un’illusione.

Il mio trip termina qua. Spero che il prezzo del biglietto ne sia valso la pena.

©®aMe
Andrea Magliano

Nonostante l’oggetto del post, il sottoscritto non sostiene l’uso di sostanze illecite.

Minimalismo

7 Gen

Don’t you think that it’s boring how people talk?
Making smart with their words again, well I’m bored

Tempestati di informazioni, da nascita a morte
Si susseguono parole e colori di voci monotone
Che di maschere ipocrite avvolgono il volto informe

Getting pumped up from the little bright things I bought
But I know they’ll never own me (yeah)

Decodificando sovrastrutture, primi passi muovo
Che il possesso esteriore porta alla povertà
Che nel minimalismo interiore vige la nuova ricchezza

Baby be the class clown, I’ll be the beauty queen in tears
It’s a new art form showing people how little we care (yeah)

Parole casuali volando nell’aria in picchiata scendono
In fiumi impetuosi di lettere, a volte colpiscono
Che nonostante gli schizzi si impara a camminare

We’re so happy, even when we’re smilin’ out of fear
Let’s go down to the tennis court and talk it up like yeah (yeah)

Della paura non voglio essere il nutrimento
Bensì della paura voglio cibarmi
Che nel buio pur sempre un cuore pulsa (yeah)

Everything’s cool when we’re all in line for the throne
But I know it’s not forever (yeah)

Obiettivo mi pongo, quel trono agogno
Pavimento luminoso dentro di quiete e felicità
Che del mio reame e delle mie strade sarò sovrano

I fall apart with all my heart (yeah)
And you can watch from your window (yeah)

©®aMe
Andrea Magliano

Nella costruzione della nuova storia del blog, aggiungo un altro, per me difficile, tassello. Intrecciando la narrazione con la canzone Tennis Court di Lorde, ora avvicinandomi e ora allontanandomi, invito a non sottovalutare il videoclip. Realizzato con un’unica ripresa con la cantante in controluce, fa del minimalismo estetico formale la sua cifra spostando il racconto su tre livelli (testo, volto, luce).

Fama

25 Ott

Calano le luci e scende il silenzio.
Si apre il sipario.
Ché la Dea rivendica il suo compenso.
Schiude le sue ali nere,
assaporando il mero frutto
e il rosso liquido
dell’anima esanime.

©®aMe
Andrea Magliano

Poco più di 10 anni fa (il 12 settembre 2003) il mondo si preparava a salutare Johnny Cash, mito della musica country folk americana. Non conoscendo nulla della sua vita privata e artistica, non ne farò un ritratto commemorativo e probabilmente sbagliato, ma mi affiderò al suo ultimo videoclip, la bellissima e struggente Hurt.

Si tratta di una cover dell’omonima canzone interpretata da Trent Reznor, leader dei Nine Inch Nails, nel 1994. Cash ne registra una cover molto personale nel 2002 per distribuirla nel marzo dell’anno successivo. Apporta un unico cambiamento al testo: indossa una corona di spine, anziché di merda come affermava l’autore originale.

La versione di Cash pare una struggente preghiera. Non si può non accorgersi della notevole vicinanza tra la data di pubblicazione della canzone e quella della morte dell’interprete. Come se Cash sapesse di avvicinarsi alla sua fine e stesse narrando le sue memorie, dettando il suo ultimo testamento.

È una sorta di visione profetica, la stessa che avrà il regista Robert Altman pochi mesi prima di morire con il suo magnifico Radio America (2006). Altman racconta l’ipotetico ultimo spettacolo del più longevo e ascoltato live show radiofonico del mondo anglofono, A Prairie Home Companion, seguendo un cast eccezionale sul palco e nel dietro le quinte. Tra di loro, una misteriosa donna in impermeabile bianco aggirarsi furtiva, vista e non vista, quasi surreale.

Cash si mostra in tutta la sua fragilità accompagnato dal piano e dalla chitarra. Perennemente seduto, immerso in un quadro di natura morta, appare in contrasto con il suo ricordo in piedi e/o in movimento, come a suggerirci la fine del suo percorso.

Dopo quasi due minuti dall’inizio, rivolge finalmente, seppur a intermittenza, il suo sguardo al pubblico accompagnandolo da queste parole:

I wear this crown of thorns / Upon my liar’s chair / Full of broken thoughts / I cannot repair
Beneath the stains of time / The feelings disappear  / You are someone else / I am still right here.

Il re dalla corona di spine non solo è immerso nella natura morta. Vive il suo essere mito nel contrasto di un’opulenza che sa farsi vuota. La casa è sfarzosa. Davanti a lui c’è una tavola imbandita con aragoste e caviale. Alle pareti il ricordo di parenti lontani mentre sulle scale la moglie che intuisce e vive empaticamente il dolore del marito. Ma i vecchi amici sono lontani e i vecchi saloon presenze vuote e spente. La vecchia casa è trasformata in un museo, ma chiusa al pubblico. Le pareti un tempo ricche di premi oggi sono vuote e spoglie.

E allora l’uomo, non più mito o re, mantiene lo sguardo fisso su di te nel più forte gesto. Mostra la rabbia, la frustrazione, la stanchezza, la tristezza, l’ineluttabilità, in due occhi difficili da sostenere. Affetto dal Parkinson, getta il vino su quella tavola imbandita ripudia quel mondo illusorio, il suo impero di sporcizia, intonando:

What have I become? / My sweetest friend / Everyone I know goes away / In the end
And you could have it all / My empire of dirt /
I will let you down / I will make you hurt

Invocando in preghiera la possibilità di una seconda possibilità, Johnny sfuma a nero il suo ricordo, chiude il sipario con quel pianoforte.

I would keep myself / I would find a way

©®aMe
Andrea Magliano

Un sentito e speciale ringraziamento a tutti che, in occasione della pubblicazione di Essenziale lo scorso 17 ottobre, hanno permesso a questo sito di raggiungere le 10.000 visite, facendomi un regalo di compleanno in anticipo. Grazie!
Countdown: -17.

Still

27 Set

Breve premessa iniziale. Il seguente articolo non si riferisce a nessuna situazione nello specifico, ma nasce dal videoclip.

Per l’appuntamento settimanale del blog, vi presento Still, canzone del gruppo indie-pop britannico Daughter rilasciata per il debutto del loro primo album If you leave.

Sono passati quasi tre mesi da quando ho iniziato a scrivere questo articolo e, nonostante la lunga e faticosa attesa, non ho individuato un titolo opportuno. I nuovi post sono stati presentati con una sola parola e volevo mantenere questo stile. In origine avevo scelto Indifferenza, ma non mi piaceva perché volevo parlare anche delle distanze. Allora Distanze, ma pure questo termine era sempre troppo limitativo. Così, alla fine, ho optato per quel Still che incalza e si inietta sotto pelle, un ancora sofferto e sofferente difficile da sciogliere. Un ancora che per una volta non trasmette la felice voglia di proseguire o di un bis.

Questo post nasce idealmente come duale di Mi amerai ancora?, scritto per l’uscita di Young and beautiful di Lana Del Rey. Se lì c’era una sentita preghiera verso l’innamorato, qui siamo ipoteticamente oltre, al capolinea del rapporto. Riciclo però due affermazioni. Da una parte la totale bellezza della voce femminile, veicolo magnifico di vibrazioni e sfaccettature, capace di scuotere e coinvolgere.

Dall’altra l’amore verso il videoclip che bramo fosse mio. Perché preme i giusti tasti di questo pianoforte ormai non più accordato e impolverato. Parte da una situazione che dovrebbe essere bellissima, un po’ come quell’ancora, che per contraddizione trasforma invece in una prigione castrante. La casa e nella fattispecie la camera, ma ancor più in dettaglio il letto, sono i luoghi in cui dovremmo essere più sereni e in pace. Fortezze in cui poter levare le maschere e ripari che agogniamo anche solo per un semplice riposo. E poi la felicità di dividere tale ricchezza con qualcuno. Forse.

I’ll wrap up my bones / And leave them / Out of this home / Out on the road

La regia del videoclip è molto delicata. Non è un soggetto invadente, ma spia silenziosa i suoi protagonisti come se li guardasse dal buco di una serratura. Li osserva alle spalle, visualizzando i dettagli delle azioni. Li vede riflettersi negli specchi che tappezzano la stanza. Vede ombre sfuggenti e imprendibili. Come in Necrologio, la ragazza si spoglia dei vestiti e del trucco, resta corpo nudo e solo, mentre la sua immagine si scompone spezzando le pulsioni dell’anima in vetri rotti.

Two feet standing on a principle / Two hands longing for each others warmth / Cold smoke seeping out of colder throats

Still with feet touching / Still with eyes meeting / Still our hands match / Still with hearts beating

Lui è lì a pochi centimetri di distanza. Sono vicini, si possono sfiorare e toccare, sentire il respiro e il cuore dell’altro battere. Condividono il letto come due perfetti innamorati. Ed eppure adesso sono le persone più distanti. Sconosciuti, nulla di più. Lei cerca un abbraccio che trova nelle proprie mani seduta sul ciglio del letto. Sono creature indifese e intrappolate da una catena che li lega in una morsa senza fine di una relazione ormai finita.

E allora che cosa è la distanza? Non può essere esclusivamente ricondotta su un piano spaziale. Forse è qualcosa di mentale. La distanza fisica in un rapporto può trasformarsi in un ostacolo laddove si vuole viverla come un ostacolo. Due amanti, due ex amanti, condividono il letto e vivono come una coppia. Ma prevale la freddezza di un freddo respiro. Si cercano ed eppure non si trovano in uno spazio ristretto. Non riescono a incrociarsi. E nonostante tutto sono pur sempre lì, incapaci di chiudere o di capire.

L’ancora si trasforma in una lenta e agonizzante monotonia del corpo e dell’anima. E la distanza in senso diventa puramente un’illusione.

Siamo mutevoli. Tutto cambia in qualsiasi momento, compresi i sentimenti, senza che possiamo prevederne l’evolversi. Chissà cosa è successo alla coppia, ma non vedo amore, né c’è odio. C’è una distanza che si trasforma in sofferente indifferenza. E cosa c’è di peggio? L’odio o la rabbia sono pur sempre sentimenti. Opposti, negativi all’occorrenza, ma lasciano traccia di un volere l’altro. Non nascondono. Si odia qualcuno a cui si continua a pensare, la rabbia si prova verso qualcuno a cui tenevamo e/o che ci ha fatto male.

L’indifferenza è lo stato d’animo che sottende la chiusura, che impone il disinteresse verso il prossimo. È la negazione del sentimento, bello o brutto, attuale o definitivamente per sempre. I due soffrono, sì, ma soffrono per che cosa? Si cercano e non si trovano mai, lei è titubante nel mettere piede in casa, lui nell’aspettarla sveglio. Anime che si specchiavano e che ora sono fredde. E arriva la fine.

Nello spegnere la luce. Nello svanire della televisione. Nel silenzio assordante di una notte. Di due spiriti che sono lì, erranti in direzioni non intersecabili. E quando l’ultima fiamma si spegne…

… Darkness falling, leaves nowhere to go.

©®aMe
Andrea Magliano

Per relazione intendo un qualunque rapporto familiare, di amicizia o come in questo caso di amore, a cui applicare i concetti di distanza e indifferenza.

Tre mesi per scrivere questo articolo e ancora insoddisfatto del risultato.