Archivio | Racconti brevi RSS feed for this section

La zattera – Atto III

17 Dic

Precedenti capitoli:

Su questa zattera, cullato dal mare,
perdo il mio sguardo nella volta celeste.
Giorni e giorni di navigazione
nel labirinto di onde, perdo.

Troppo disattento nel scrutare mondi,
ho confuso le lacrime con l’acqua ribollente
di un lento sprofondare
della zattera che silente si inabissa.

Suono interrotto nella notte,
ultimo ossigeno e poi sotto la superficie.
Lieve bagliore bianco illumina
la mia danza fetale sottomarina.

Mentre la zattera si allontana,
ormai non più necessaria,
troppo disattento nel scrutare pensieri,
si riaprono le cicatrici della pelle.

Fluido rosso circonda il corpo,
in un valzer di colori nell’oscurità.
E poi tutto diventa immobile
e gli occhi si riaprono.

Bagno battesimale di un corpo nuovo
in emersione dal mare, primi passi sulla terra.
Con i sensi vivi, ispirazioni assorbo
e con una matita la terra coloro.

©®aMe
Andrea Magliano

Ispirazione

2 Dic

Apri la porta ed entra!

Debole luce rischiara la stanza circolare. Il freddo metallo del pavimento è interrotto da un pozzo vuoto e spento che si innalza nel centro. Distese di penne appese al soffitto assomigliano a lame acuminate. Dondolano in attesa di espiare la propria storia e minacciose diventano brillii intermittenti.

E poi porte. Porte sul perimetro somiglianti a schermi di vetro, silenziosi e immobili. Trasparenti finestre inanimate. Mi avvicino diffidente a una premendo la mia mano contro la gelida superficie. Vibrazione. E poi una lieve illuminazione. Lo schermo si anima. Cauto allungo il volto verso l’immagine improvvisa.

Fiocchi di bufera imperante coprono una fragile traccia immersa tra cumuli di neve. Il viandante lontano cerca la via della sopravvivenza reggendo una piccola torcia e un mantello leggero. Sembra notarmi e accelera deciso il passo verso la mia mano. C’è quasi. Afferrala…. Ghiaccio. Strati di ghiaccio avvolgono la porta, intrappolando l’uomo. E tutto si spegne.

Spaventato dalla visione mi aggrappo rapido al pozzo, immediatamente attratto da un nuovo bagliore. Questa volta è lo schermo destro a narrare.

Giace a terra, riscaldata da una candela ormai consumata, una scatola senza coperchio di fili e aghi. Nella penombra si muove una mano femminile intenta a cucire. La chiamo e lei si ferma. La candela si fa più incandescente scoprendo una serva ottocentesca seduta di spalle sul pavimento. Breve sospiro, scatto improvviso della testa. Occhi e bocca cuciti. E tutto si spegne.

Prende vita un’altra porta con me ancora paralizzato. Prima urla distanti che invocano aiuto. Poi elettrizzanti saette miste a nuvole di zolfo che coprono ogni suono. Pioggia infinita di fulmini battenti, che mi costringono ad avvicinarmi sperando di vedere oltre. E lo schermo rimbomba improvviso di colpi, spinto da agghiaccianti e disperate mani sporche di sangue. E tutto si spegne.

Rimane la porta di accesso ormai chiusa. Risplende intermittente e poi si assesta luminosa. Si estende un prato rigoglioso di fiori, ma la porta preclude l’odore. Angelica presenza al di là raccoglie un fiore portandolo al naso. Alza la fronte nella mia direzione scoprendo un viso senza volto, ma raccolto in un sorriso. E tutto si illumina dietro di lei. Non è sulla terra. È il fondale marino. Dietro si levano banchi di alghe e coralli, mentre pesci fluttuano sospesi e balene giocano in lontananza. Il verde del prato è pervaso del blu oceano.

La presenza alza un braccio indicando il pozzo. Non mi sono accorto del suo lento ribollire. Si riempe di acqua fino a tracimare. Immerse fluttuano sparse lettere e nel mezzo un’accetta che impedisce la lettura. Immergo la mano nell’acqua bollente, mentre il soffitto brilla sempre più velocemente.

Riappropriati dei sensi.
Vai al di là di ciò che appare.
Trova la tua ispirazione.

Presa l’accetta, la impazzo sulle porte sotto lo sguardo vigile ed eccitato della figura senza volto. Tremano. Si difendono. Si illuminano su mondi e sensi. Lacrimano sangue dalle ferite. E il pozzo continua a vomitare acqua e parole. Tocca alla porta sottomarina. Un colpo. Un secondo. Un terzo. E la pressione implode.

Bagliore bianco.

©®aMe
Andrea Magliano

Questo brevissimo racconto è un po’ diverso dai post che di solito propongo. Cerco di evitare il gore e la vena horror, che comunque mi appartengono, per non infastidire chi non sopporta il genere. Qui ho cercato di ridurre il loro impatto a poche immagini ché la versione originale nella mia testa era più lunga e marcata. Era successo anche in Liquefazione, pubblicato quasi un anno fa. Ma a volte le immagini (e così le parole che uso per tradurle al momento) mi aiutano a buttare fuori le nuvole nere e la stanchezza che stanziano dentro di me. Detto ciò spero che possiate gradire questo testo.
E vi ricordo l’appuntamento anche su Cinema Sperimentale per scoprire nuovi artisti e le loro opere.

Sole

20 Set

Per i più non c’era nulla di strano nel giorno che stava facendo capolino. Era un pur semplice giorno, come lo era stato il precedente e quello ancora prima. Proseguivano veloci a testa bassa, attendendo quel domani che ancora non arrivava.

Non per tutti però era un giorno qualsiasi. Non per lui. Sentiva una strana vibrazione nell’aria. Una dolce promessa che lo accarezzava da sotto il tepore del lenzuolo. Quell’oggi l’avrebbe fatto.

L’aveva osservata a lungo, di nascosto e di sfuggita, da dietro le rocce e le fronde degli alberi. Aveva visto il suo sorriso e la purezza dei suoi lineamenti, incantato dalla dolce magia che sprigionava. Era speciale. Non sapeva il motivo, ma lo sapeva e basta. E sapeva che doveva sorriderle e conoscerla. Perché lei lo stava attendendo.

Così sì era alzato in fretta e furia. Si era fiondato dritto verso il guardaroba. Si sentiva ribollire per l’imbarazzo e, anche se non lo voleva ammettere, era agitato. Cosa metto? continuava a ripetersi, frugando tra i suoi completi migliori. Vada per questo! E corse fuori sistemandosi senza sosta il vestito raggiante.

Fortuna che prima di incontrarla sempre lì nello stesso posto, come sempre era stato, attraversava una vasta pozzanghera. Oceano, lo chiamavano là sotto. Ma per lui era solo uno specchio per capire se poteva fare bella figura.

Qualche ora di viaggio e qualche chilometro. Ora pochi minuti e pochi metri. Ed ecco il posto. Come fare a dimenticarselo?

Stava per affacciarsi da dietro il suo riparo quando trovò una famiglia di nuvole dispettose. Avevano deciso di fermarsi per una breve vacanza proprio lì. E come erano antipatiche quelle nuvole, chiassose persino. Tuonavano le loro voci, spaventando i più piccoli ormai in lacrime. Lui sgomitava contro quel muro grigio. Cercava di saltare più in alto o di soffiare più forte che poteva. Ci provava e riprovava. Attese con pazienza che quelle nuvole levassero le tende, ma alla fine con tanta amarezza dovette rinunciare. E con una ferita nel cuore era tornato a casa.

Tribolava sotto le coperte per il mancato desiderio. Poi d’un tratto una scintilla: ci avrebbe riprovato! Sarebbe sorto prima così da battere tutti sul tempo. E così fece, ma pur sempre un lungo cammino doveva affrontare. Doveva correre. Ma quanto era ingrassato e quanto poco era allenato? Correva con sempre più fiato, sempre più accaldato e rosso in volto. Necessitava di una bella rinfrescata. Ma quando?

Poco importava perché, superato il solito riparo, stormi infiniti di uccelli svolazzavano di qua e di là. E di nuovo la sua vista restava bloccata. Ma cosa succede in questi giorni? E la sua collera saliva. Andate via! urlava sempre più violento. Alla fine con un po’ di diplomazia aveva convinto gli ospiti ingrati a volar via. Ma con che fatica! E soprattutto quanta rabbia lo stava riscaldando. Al punto che il suo albero preferito incominciò a… prendere fuoco. E quello che all’apparenza era un giorno perfetto, si tramutò nella sua gaffe più grande.

Vergognoso e imbarazzato, tornava a casa per l’ennesima volta con una ferita nel petto. La testa china nascondeva una lacrima. Prima di addormentarsi, cercò di ricordare il primo magico incontro. E poi il secondo e così i successivi. Non poteva mollare. Gli incidenti capitano. Avrebbe riprovato, stavolta con il sorriso. E si addormentò placido.

Era in viaggio sempre più sorridente. Sentiva che questa sarebbe stata la volta buona. Ma qualcosa non quadrava. Il suo lontano cugino, parente astrale in chissà che modo, quello che vedeva una volta ogni tanto, era lì. Gli stava terribilmente antipatico. Piccoletto eppure così presuntuoso. Lo riteneva fin freddo e un soggetto cupo. Il suo esatto opposto. O no! Si è accorto di me! accorgendosi che non aveva più vie di fuga. Ciao… Luna, quanto tempo che non ci si vede! Avviò così una, per lui, lunga e tediosa conversazione. Quella luna che stava eclissando il suo sogno, ancora una volta ritardato.

Non aveva ascoltato granché di quelle frasi, troppo intento a volgere lo sguardo oltre le spalle dell’interlocutore. La cercava, ma non la trovava. E quando la Luna era fuggita si era portata con sé il suo sogno.

Era triste e a poco a poco si spense lungo la via di casa. Si era infilato sotto le coperte totalmente sfinito.

Il domani era arrivato. Ma non c’era più un valido motivo per sorridere. Si sentiva un fallito e per una volta non voleva percorrere quella strada che lo aveva accompagnato così a lungo. Ma dal suo taschino una cosa, una chiave, mancava. Troppo preziosa per non curarsene. Oddio, dove è finita? Forse è caduta lungo la via.

E a malincuore si era ritrovato a percorrere quello stesso percorso, aguzzando la vista, cercando di scorgere il suo tesoro mancato. Il Sole non si era accorto di aver coperto ormai quasi tutta la distanza che lo separava dal suo solito riparo. Aveva scostato dei vecchi tronchi bruciacchiati quando una voce dolce e serena lo sorprese.

È da un po’ di giorni che vengo qui e ti spio in segreto da qua sotto. Non so il motivo, ma c’è qualcosa in te che mi riscalda e mi fa stare bene. Ti ho cercato e non ti ho più trovato. E mi sono preoccupata. E sono stata triste perché pensavo fossi scappato. Poi ieri, prima di andare via, sotto la Luna ho trovato questa chiave, proprio qui, per terra. Credo appartenga a te. E ti ho aspettato per ridartela. Ciao Sole.

E il Sole sorrise.

©®aMe
Andrea Magliano

Non ho quasi mai pubblicato dei racconti, qui sul blog, giusto un paio quando ancora non avevo lettori. Avevo però voglia di farlo. E spero vi sia piaciuto, strappandovi un piccolo sorriso.

E ringrazio di cuore – e purtroppo con estremo ritardo – la blogger Pilar93 per avermi insignito anche lei del Versatile Blogger Award. Mi sento nuovamente onorato per questi premi che condivido con tutti voi e vi rimando con passione sul suo blog. Io per primo lo conosco da poche settimane, ma ogni giorno che passa mi piace sempre di più e ve lo consiglio caldamente.

So cosa raccontarti per permetterti di entrare

8 Dic

Ho promesso che non mi sarei mai ripetuto. Ho promesso che avrei scritto soltanto testi nuovi. Ho promesso.
Ma ogni tanto le promesse vanno disattese. Per tanti motivi. Questo l’ho scritto nel lontano gennaio 2009 e mette in evidenza tanti aspetti della mia persona e del mio stile. Piuttosto ermetico e al tempo stesso banale.
Oggi sono un po’ nervoso. Per alcuni motivi. Sono andato a dormire tardi. Mi sono svegliato presto. Ho fatto l’albero.

Buona lettura. Almeno spero.

Ghirigoro

Tutto inizia con una nave spiaggiata in pieno deserto. Tutto è distorto. Intorno solo piante. Ma la sabbia avvolge tutto e tutto nasconde. Tu. Io. Il mio sogno. Il sogno. Fletto i muscoli. Sono in uno sgabuzzino. Sono al buio, ma d’un tratto la luce si accende. Eccoti. Eccomi. Completamente nudo. In catene e intorno a me la combinazione per salvarmi. Sono numeri, sono parole sparse. Le parole che mi sono state dette. Le parole che non vorrei risentire per non cadere in errore. Le parole che ho pronunciato senza il benché minimo interesse. Sono storie sono favole. Ricominciamo. Tutto inizia con una nave spiaggiata in pieno deserto. Tutto è distorto. Solo sabbia. Sabbia e ancora sabbia nella desolazione del tuo essere. Io sono nudo, totalmente. Sono incatenato. Braccia e gambe intrappolate da quelle funi di metallo. E tu che giochi sul mio corpo con la tua mano. Finché non mi dici la soluzione dell’enigma. Non mi piace. Ricominciamo. Tutto inizia con una nave spiaggiata nel deserto distorto di sabbia che rappresenta quel che vuole rappresentare. Io sono nudo incatenato davanti a te. Tu hai una frusta e mi dici parole vuote e prive di senso. Io ci sono cascato? Possibile, ma forse no. Io credo che qualcosa non vada. No forse va. Ricominciamo. Tutto inizia con una nave spiaggiata nel deserto della stanza in cui tu mi hai incatenato. Sono nudo e solo. Sono nudo e tu non ci sei più. La chiave è intorno a me. C’è un muro ricoperto di simboli. Un muro ricoperto di interessi morbosi che si riducono solo a essere morbose curiosità. “Come ti senti?” “Come stai?”. Non ti interessano ed io lo so. Lo vedo da come mi rispondi, lo vedo da quanto tempo impieghi. Lo vedo e l’ho visto. Qualcosa. Non mi piace. Ricominciamo. Sono in pieno mare, c’è un iceberg e oltre il deserto. La nave lo colpisce come tu mi spezzi il cuore. Io corro dritto per vedere lo sguardo, ma la sabbia cela alla vista il taglio. Tu compari e mi rapisci. Mi leghi ad un sotterraneo chissà dove dopo avermi denudato e fatto quel che hai voluto del mio corpo con quella tua mano e con la tua passione. E non posso dire di non essermi inebriato di quel momento. Di aver goduto come non mai. Eppure intorno a me c’è solo un vuoto, una stanza, tu non cogli la mia richiesta d’aiuto e io non colgo quel che avrei dovuto cogliere. Tu ritorni con la frusta. Mi dai una scelta e io l’ho presa. Sarà una nuova filosofia, sarà dedicata alla novità. Ogni periodo cambiamo è questo il fatto e ogni me che rifiuteranno sarà un me che ameranno. Perché la verità è questa: sono solo storie, sono solo illusioni. Ricominciamo. Tutto finisce con una nave spiaggiata in pieno deserto. Era una nave lunga…

10 gennaio 2009
©aMe
Andrea Magliano

The frozen world

22 Nov

Precedente capitolo:

La pioggia cadeva a capofitto. Ogni lampo era una pugnalata allo stomaco del piccolo pulcino. Le sue ali gridavano pietà per quell’immane sforzo. Era stanco. Il suo viaggio avanzava con gran fatica su quella distesa blu scuro in tempesta. Di tanto in tanto cadeva giù nell’ignoto. Poi con le piume e le penne zuppe d’acqua riusciva sempre a sfuggire alle onde che si levavano come tanti grandi predatori. Aprivano le fauci liquide e cercavano di addentare un pezzo di lui. Magari il becco, così che smettesse di chiedere.

Dietro quelle tigri d’acqua, oltre le dense nubi nere, i lampi nascondevano una terra.

“Sono salvo!” esultò sollevato. “Ancora un piccolo sforzo e sarò salvo! Troverò un albero su cui appollaiarmi, userò le foglie per asciugarmi e farmi un bel nido e mangerò i prelibati frutti che troverò!” continuò fiducioso.

Ma restò abbagliato da un lampo improvviso e il tuono che ne seguì gli fece perdere i sensi. Il pulcino stremato stava cadendo. Di nuovo.

Non so dirvi che cosa lo risvegliò. Forse l’acqua che gli bagnava le penne della coda. Forse il dolore lancinante alla testa o alle piccole ali. Forse era la fame che gli contraeva lo stomaco. Secondo me, il piccolo pulcino fu risvegliato da quella strana cosa che scendeva copiosa dal cielo, solida e fredda, ma che a contatto con il suo corpo si trasformava immediatamente in acqua.

Neve. Era la prima volta che la vedeva. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai toccata.

Era infreddolito, paralizzato. Dove era capitato? Il mondo davanti a lui era sì vasto, ma piatto. Per quel poco che riusciva ad intravedere in quella “tormenta, sì è così che la chiamano”, non coglieva nulla di rilevante. Ghiaccio, soltanto ghiaccio in ogni direzione. Qualche roccia qua e là, frantumata o meno. Ma nient’altro.

“Deve esserci qualcosa!” pensò spaventato e rabbioso. “Non posso aver fatto tutta questa strada per trovare questo!”. Il panico iniziò a impossessarsi di lui.

Così cominciò a zampettare in avanti alla disperata ricerca di qualcosa. All’orizzonte gli era parso di vedere degli alberi. Con una nuova fiducia in corpo, si mosse il più veloce possibile. Ma la speranza fu subito sostituita dalla disperazione e da un forte senso di abbandono. Gli alberi erano totalmente di ghiaccio e la vita se ne era già andata.

Il panorama era desolante. Sembrava che non ci fosse nulla. Nessuna forma di vita. Niente di niente. Una distesa piatta senza fine. Poi nell’oscurità della notte in tempesta, gli parve di vedere una strana luce rossa che fluttuava incurante di tutto.

“Aspetta!” gridò senza risultato il piccolo pulcino infreddolito. Così si mise a rincorrerla. Ogni tanto la perdeva di vista in quella violenta tormenta. Quel bagliore rossastro sembrava però aspettarlo. Lo invogliava a inseguirlo. Il pulcino era curioso, ma soprattutto desideroso di trovare qualcuno.

A un certo punto il bagliore si fermò e parve dissolversi. Il pulcino arrivò sul posto esatto. Restò sgomento per quello che aveva di fronte. Davanti si ergeva un palazzo gigantesco. Aveva una decina di piani, sembrava molto vecchio. L’edificio pareva essere stato sventrato. Mancavano qua e là delle finestre, pezzi di parete, le ampie scale del ballatoio risultavano esposte alle intemperie esterne. Da alcune finestre fuoriuscivano fogli di carta, sporgevano vecchi mobili. Era morto. Era ciò che restava di chissà quale mondo. La tormenta non gli dava tregua.

Il pulcino guardò in alto e si accorse che il misterioso bagliore rosso era ricomparso su un vecchio balcone pericolante. Il pulcino si fece coraggio, raccolse le poche forze rimaste e si alzò in volo. Sbatteva le ali più veloce che poteva per non precipitare. Doveva sapere. Saliva i piani. Saliva. Ci stava quasi riuscendo. C’era riuscito. Stremato abbassò lo sguardo e riprese fiato. E sentì caldo.

Davanti a lui, c’era il bagliore rosso. Emanava una luce fortissima, ma non accecante. Splendeva. Illuminava l’oscurità. Poi si accorse che dietro quella bellissima emanazione c’erano due zampe possenti. Alzò un pochino il becco e notò un corpo magnifico, possente. Rassicurante. Per arrivare alla testa. Il becco era lungo e appuntito, ma non sembrava minaccioso. Gli occhi erano penetranti e lo sguardo trasmetteva al pulcino un profondo senso di sicurezza. Però quegli occhi lo facevano sentire piccolo piccolo e impotente. Il manto rosso era avvolto dalle fiamme che ferivano la tormenta.

Davanti a lui, in tutto il suo splendore, c’era la fenice.

“Non avere paura. Non sono qui per farti del male” lo rassicurò il gigante. “Sono qui per mostrarti una verità”. La sua voce era possente e maestosa.
“Perché mi hai condotto da te?” proferì il pulcino con una profonda rabbia che celava la paura.
“Per aiutarti a capire”.
Il pulcino chinò gli occhi per nascondere le lacrime. “Perché vivi in questa landa desolata? Non hai paura che la tua fiamma si spenga?”
“Non tutte le domande hanno una facile risposta e non sempre tutto è evidente. Per quanto ti sforzerai nel tuo viaggio non sempre riuscirai nell’impresa. Ma trova la forza di andare oltre le apparenze. Ovunque c’è bellezza e una voce, anche dove meno te lo aspetti”. Spalancò l’ala destra e illuminò oltre la vetrata del balcone. “Guarda dentro” disse spingendo il pulcino verso la finestra.

C’era una famiglia. Allora anche su quella terra estranea e tormentata c’era vita. Il pulcino scorgeva una madre stesa sul divano mentre stringeva a sé il corpo della figlioletta. Il padre muoveva qualche passo verso di loro festoso. Dietro c’era un caminetto con un fuoco ardente che riscaldava l’ambiente. Giocavano tra di loro. Totalmente incuranti della desolazione del mondo che li circondava. Erano felici. Erano a casa.

Il pulcino si voltò verso la fenice. Ma la fenice era scomparsa. Il pulcino rimase da solo nel buio, illuminato dalla debole luce oltre il vetro. Si appollaiò e aspettò. Chiuse gli occhi e dormì.

©aMe

L’ispirazione del brano è la canzone The frozen world di Emilie Simon, per il film La Marcia dei pinguini.