Scene di lotta di classe all’Agenzia delle Entrate
Vi potrei parlare della mattinata trascorsa all’Agenzia delle Entrate. Tra code, una mezza rissa tra un visitatore sull’orlo di una crisi di nervi e la direttrice del centro, funzionari che rifiutano di fare il loro lavoro. Invece non lo farò. Avevo bisogno di un’introduzione con il botto per crearvi delle false aspettative. E perché non sono bravo a fare le introduzioni.
Ciò di cui voglio parlare nasce da un film uscito nei, e credo già scomparso dai, cinema: The bay. E condividere con voi alcune considerazioni di natura ambientalista. Immagini di puro terrore.
Il film, un thriller ecologista, nasce come un mockumentary, un falso documentario che ricostruisce gli eventi registrati dalle telecamere dei protagonisti. Non aspettatevi l’ennesimo Paranormal Activity. Alla regia del film c’è un settantunenne, Barry Levinson, vincitore di un Oscar per Rain Man – L’uomo della pioggia e nella cui filmografia figurano commedie di intrattenimento e film impegnati come Sesso e potere.
È curioso analizzare come una persona esperta si avvalga di questo stile registico, per certi aspetti giovanile e privo di spessore sociale. Al contrario di altri film, qui si nota la regia curata e studiata. Gli attori, per dare maggior realismo alla storia, sono sconosciuti, in molti casi senza nessuna predisposizione alla recitazione. In ultimo, giudizio personale, la storia è più interessante nella prima parte per scivolare nel pressapochismo, ripetitività e nel devo chiudere al più presto sul finale.
Il narratore del film, mano a mano che vengono presentati i nuovi personaggi, dice a priori chi muore e chi no. La causa dell’epidemia è in pratica svelata già nella locandina e venti minuti dopo l’inizio del film. Per chi non si vuol rovinare nessuna sorpresa, informo della presenza di spoiler.
Dopo Lo squalo, avrete il terrore dell’acqua. Un’epidemia contagia una cittadina di circa 6.000 anime nel Maryland, provocandone la morte di quasi la metà in una giornata. Partendo dai reali banchi di pesci trovati morti, pare essere stata trovata la causa in un parassita crostaceo realmente esistente, la Cymothoa exigua, che entra nelle branchie dei pesci per sostituirsi alla loro lingua. La cittadina del film sopravvive(va) grazie alla baia limitrofa e recentemente all’azienda di polli. Qui gli animali sono cibati con droghe e steroidi per velocizzarne la crescita e i loro escrementi gettati nelle acque, in cui anni prima c’era stata una perdita tossica. Il sindaco della città ha deciso di aprire uno stabilimento per rendere potabile l’acqua e fornirla sia all’industria aviaria sia alla popolazione. Il parassita, che prima non abitava il fondale, ha un nuovo habitat e si evolve rapidamente crescendo alle dimensioni di uno scarafaggio e trasformandosi in un abile predatore di tessuti animali. Se è vero che l’esistenza di sistemi di filtraggio escludono un esemplare adulto, non riescono a isolare le larve, così ingerite o inserite sotto pelle aumentando così il contagio. Fine spoiler.
Penso che la natura sopravviva grazie a un prezioso e delicato equilibrio tra tutte le specie viventi. Il vero miracolo della vita, per come lo intendo, si basa proprio su quest’alchimia che si crea tra tutti gli esseri che hanno imparato a vivere in una perfetta simbiosi universale. L’uomo appare tuttavia più un cancro su questo pianeta e sembra che la natura abbia bisogno di recuperare nuovamente l’equilibrio perso.
Ciò che mi intimorisce del film è come alla fine, per via di una serie di concause causate dall’ingordigia umana, la natura stessa produce il nostro sterminatore, secondo la teoria per cui l’uomo è vittima e carnefice del suo stesso gioco. Contemporaneamente, l’animale di maggior forza non è quello di maggior dimensioni o apparentemente più evoluto, ma il più piccolo che grazie a una maggior adattabilità ha saputo ribaltare la catena alimentare e ripristinare un nuovo equilibrio. L’idea in questione è simile all’epilogo de La guerra dei mondi, in cui la creatura più forte è anche quella invisibile a occhio nudo.
La nostra morte non proviene da un mostro immaginario o da un alieno, ma è reale e di questo mondo. Evidenzia la nostra totale fragilità e impotenza. Mostra la nostra vulnerabilità. Mi provoca un profondo senso di malessere come ha fatto Contagion. Soderbergh mostra una reale pandemia che stermina oltre un miliardo della popolazione mondiale, svelandone la causa negli ultimi due minuti. E anche in quel caso non si è di fronte a un castigo divino o a qualcosa di trascendentale, bensì a un semplice effetto domino e rapporto di causa-effetto, persino banale, ed eppure totalmente plausibile e lecito. Per questo ancora più angosciante.
In The bay la diffusione di questo virus rimanda alla peste che decimò la popolazione europea. Le vittime sono colpiti da piaghe, sfoghi cutanei, arti in cancrena. Non c’è cura che funzioni e l’originalità del mezzo di trasmissione implica nessuna via di scampo, essendo l’acqua l’elemento di vitale importanza per la sopravvivenza umana. Perché se per prevenire il contagio da una malattia a volte basta lavarsi le mani, qui proprio quel gesto si può trasformare in veicolo di morte. È emblematico che alla fine il medico, la figura adibita alla cura dei pazienti, si trasformi in vittima. Così come i primi due cadaveri appartengono ai due scienziati, uccisi tanto dalla cupidigia umana quanto dalla natura che cercavano di studiare.
Il film affronta anche un secondo tema: l’ottusità delle autorità e l’inefficacia dei mezzi di comunicazione. In virtù del e grazie al denaro, le autorità mettono a tacere tutto, pagano i sopravvissuti in cambio del loro silenzio. Cosicché l’equilibrio non venga perso.
The bay non sarà un film originale. Ma forse è un altro monito del nostro tempo.
@aMe
Andrea Magliano